Tratto dal racconto “Il monaciello”


Matera, ottobre 1950.

Era inutile, donne come Lucia se ne trovavano poche. Vito lo pensava davvero, nonostante non potesse che limitarsi a guardarla.
Lui e Paoluccio camminavano lungo via D’Addozio, appaiati, di ritorno proprio da casa di Lucia. Vito doveva ritirare il suo abito, confezionato dalle mani dorate di lei. Il ritiro avrebbe potuto farlo da solo, ma aveva convinto Paoluccio a fargli compagnia. Voleva assolutamente che i due si conoscessero. Era certo che il suo amico di lunga data avrebbe perso la testa per lei.
Con Lucia era facile.
Paoluccio era suo amico dai tempi dell’infanzia. Ne conosceva ogni difetto, ogni paura insita in quel suo carattere tremendamente introverso. Tutto questo nonostante per molti anni si erano persi di vista.
Vito aveva lasciato Matera al termine delle scuole elementari. Arrivare in quinta era stato l’obiettivo voluto e raggiunto dalla ferrea volontà di suo zio prete, Don Ignazio. Questi, in realtà zio di sua madre, aveva preso a cuore l’educazione del suo pro nipote. L’alternativa per Vito era la stessa vita dei suoi genitori: fare il pastore.
“Tuo figlio deve studiare” ammoniva Don Ignazio all’indirizzo di suo padre “è un bambino intelligente e sveglio, non può stare appresso alle pecore!”.
Vito osservava suo padre assentire con modi ossequiosi. All’epoca si era stupito di vederlo così accondiscendente. Quegli episodi, però, rivissuti in età adulta, avevano assunto un significato diverso, quello vero. Quello di suo padre non era un atteggiamento servile nei confronti dello zio prete, ma solo preoccupazione per il futuro del suo unico figlio. In fondo anche lui non voleva che seguisse le sue stesse orme. Suo padre Mario e sua madre Francesca infatti, erano pastori al servizio di don Ciccio. Erano persone buone di cuore e umili fin nel midollo.
La loro vita da eremiti li aveva resi schiavi di un alienazione avvilente. Parlavano pochissimo, anche tra loro, e quando parlavano il loro linguaggio era quasi primordiale. Non avevano una casa a Matera. Vivevano completamente avulsi dallo spazio e dal tempo. Erano dei lavoratori instancabili. I giorni della settimana per loro non esistevano. Non c’erano festività, se non il due luglio.
Suo padre aveva conosciuto sua madre per puro caso, durante una delle rare occasioni in cui aveva accompagnato Emanuele, il referente di don Ciccio, a Matera. Se quel giorno i due non si fossero incontrati, Vito non sarebbe mai nato. Suo padre sarebbe morto in solitudine in un pascolo di don Ciccio e sua madre avrebbe sposato un uomo con una vita normale.
In poche parole Vito doveva ringraziare Don Ignazio per averlo tirato fuori dalla sua famiglia, lo aveva salvato. Vito era stato strappato dalla sua esistenza anonima ed era cresciuto con suo zio, respirando l’aria pregna di religione e virtù.
Prima di trasferirsi in città, a casa di Don Ignazio appunto, era cresciuto avulso anche dalla religione, o meglio, avulso da tutto. Ma quella situazione all’improvviso si era ribaltata. In via Castelvecchio, tra le mura di quella vera dimora, la fede lo aveva avvinghiato, quasi travolto. Era stato l’unico chierichetto che officiava a tutte le messe. Era più conosciuto di Monsignor Pecci. Le sue giornate erano divise tra la scuola al mattino, lo studio nel pomeriggio e le sacre scritture alla sera prima di andare a letto. Per fortuna le vacanze le passava in campagna, assieme a suo padre e sua madre. Durante l’anno scolastico i suoi genitori andava invece a trovarli una volta al mese. Era l’unico modo per non dimenticare i loro lineamenti.
Finite le scuole elementari, zio Ignazio era stato trasferito a Roma.
“Tuo figlio lo porto con me!” aveva sentenziato con il tono di chi non ammette repliche.
Vito aveva visto suo padre acconsentire ancora una volta e senza proferire parola. Lui si era rattristato ma non aveva pianto, non quel giorno. Il giorno della sua partenza, però, non aveva saputo trattenere le lacrime. Suo padre, oltre il vetro dell’auto, lo aveva guardato senza espressione. Quell’uomo, duro come il coccio, nel corpo e nello spirito, era lì impalato a fissarlo e basta. Quando l’auto era partita, Vito lo aveva salutato.
Suo padre aveva ricambiato, alzando la mano così lentamente da non essere riuscito a vedere la fine di quel saluto silenzioso. Sua madre aveva tenuto per tutto il tempo un fazzoletto rattrappito sotto il naso arrossato dal pianto. Lo aveva salutato con una carezza quando gli aveva dato la valigia di cartone con i suoi pochi stracci. Non un consiglio, non una raccomandazione, non una sola parola di conforto. Niente. Nel loro mondo, la dolcezza era rimasta chiusa fuori.
Così Vito era stato assorbito dalla vita di città per anni. Fino a qualche mese prima: nel corso dell’ultimo anno due eventi avevano stravolto la sua esistenza. Don Ignazio e don Ciccio, datore di lavoro di suo padre, erano passati a miglior vita a distanza di poco tempo l’uno dall’altro. Il suo camminare in quel momento tra le vie dei Sassi, in compagnia del suo amico Paolo, era una conseguenza di quei due eventi.
– Lucia è una bella ragazza, eh… Paolo? – chiese Vito con una spolverata di malizia.
Quando erano arrivati a casa di Lucia, Paoluccio era rimasto per tutto il tempo impalato sulla porta. Aveva tentato di far finta di nulla. In realtà con lo sguardo aveva cercato continuamente la figura della giovane vedova di Giacinto. A lei ovviamente non era sfuggito quell’atteggiamento, se pur insolente da un lato era piacevole dall’altro.
In verità le occhiate del suo amico non sarebbero sfuggite nemmeno a un cieco!
– Sì, molto… – Paoluccio rispose con tono serio – ma la gente parla male di lei!
Vito sentì un moto di rabbia salire rapido come un treno, dallo stomaco fino al cervello. Il suo amico si meritava di essere strapazzato, anche solo per smuoverlo dal quel suo modo di pensare, vecchio quanto i Sassi. Ovviamente quella di Vito era solo una metafora, la sua stazza era la metà al cospetto di Paoluccio. Nonostante questo, si stizziva dinnanzi a una tale chiusura di pensiero.
– E tu ti interessi di quello che dice la gente? – gli chiese – non hai un cervello per pensare da solo?
Paoluccio lo aveva guardato per un secondo, accigliato.
– Certo che ce l’ho!
Dagli occhi dell’amico era chiaro quanto una affermazione del genere toccasse un nervo scoperto. Era anche chiaro quanto il suo istinto primordiale, fatto di pura rabbia, fosse la conseguenza degli anni passati in collegio.
Paoluccio, assieme a sua sorella Rosa, aveva trascorso anni tremendi in quel macabro collegio della provincia materana. In quel luogo, il bambino Paolo era stato forgiato ed era diventato uomo troppo in fretta. Sua sorella, invece, era stata plagiata con la cattiveria di quelle suore, tutto fuorché serve di Dio. Rosa, infatti, aveva perso il senso di stabilità e sicurezza, indispensabile nella vita. Da allora non ci stava molto con la testa, ma nessuno osava porre la questione in questi termini. In sostanza, da quel posto infernale nato per educare, nessuno dei due ne era uscito indenne.