Tratto dal racconto “La miseria”

Matera, agosto 1950.

La notte, in una casa dei Sassi, era diversa da qualunque altra notte di qualunque altro posto. In un tugurio, chiamato casa solo per convenzione, il nero pesto era più scuro, più avvolgente delle tenebre. Attraverso l’unica finestra sulla porta, la luce fioca degli sporadici lampioni stradali si sforzava di penetrare ma le lampade erano così distanti tra loro da lasciare enormi vuoti bui sulla strada, rendendola lugubre. Nella penombra della casa era possibile vedere solo i riflessi dei corpi distesi sul letto matrimoniale, volutamente alto in modo da diventare, sotto di esso, l’habitat di galline e gatti.
Sopra esseri umani, sotto esseri animali.
Bruna era distesa su di un lato, con gli occhi chiusi ma senza dormire. Non le riusciva. Il rumore provocato dal fruscio del materasso a ogni movimento di Eustachio era insopportabile tanto quanto il suo agitarsi.
Bruna sapeva che suo marito, quando era insonne, aveva gli occhi sbarrati a fissare la volta scavata nella roccia sopra il letto. Al contrario, se il sonno lo avviluppava profondamente, dormiva su di un lato, immobile, russando in maniera assordante e come spiacevole accompagnamento c’era anche un flebile fischio.
Bruna sgranò gli occhi e fissò il nero attorno a lei. Per un momento non ci fu alcun rumore. Le sue figlie dormivano placide, indenni dalle preoccupazioni che tormentavano lei ed Eustachio.
Un tempo, quando una parvenza di benessere c’era in quella casa, il mulo con il suo scodinzolare e il suo respiro robusto nel suo angolo dentro casa, sembrava essere l’unica presenza viva. Ora il suo posto era vuoto, col tempo e la fame avevano dovuto venderlo.
– Non prendi sonno?, chiese Bruna a suo marito a mezzo tono.
Eustachio attese alcuni secondi prima di rispondere.
– No.
Le risposte laconiche di Eustachio imbrigliavano rabbia, scoramento e fame.
– Sei preoccupato... o è la pancia vuota?, chiese ancora Bruna senza smettere di fissare, triste, il nero davanti ai suoi occhi.
– La pancia vuota è fesseria, mi sento avvilito, proseguì Eustachio – non si può campare così. Fece un’altra lunga pausa, poi riprese – mi ammazzo di lavoro dalla mattina alla sera per quelle quattro terre che abbiamo, ma la sera andiamo sempre a letto digiuni.
Bruna sapeva che il digiuno per suo marito ormai non era un problema. Quelle parole però erano il suo modo per rimarcare la loro miserabile esistenza. Le giornate erano concatenate tra loro dagli sforzi continui per racimolare qualcosa da mangiare per il giorno dopo. Il loro futuro non era più lungo di ventiquattro ore. Bruna sospirò.
– Questo è il destino nostro, disse con tono amaro – lavoro, miseria...
– ... e quattro figlie femmine! – aggiunse Eustachio sfiduciato.
La vita di un uomo come lui, bracciante a giornata e proprietario di un pezzettino di terra che richiedeva più lavoro di quanto fruttasse, con una famiglia con quattro figlie femmine, era pressoché disastrosa. I figli maschi volevano dire braccia per lavorare e quindi un aiuto nei campi. Le figlie femmine erano l’esatto opposto. Non portavano reddito e in più si doveva provvedere a racimolare soldi per costituire una dote degna della famiglia. Una dote che non sfigurasse di fronte a nessuno nel giorno del fidanzamento ufficiale.
Quando Bruna partorì per la quarta volta una figlia femmina, pianse. Le sue però non erano lacrime di gioia, ma di rammarico per non essere riuscita a dare a suo marito, ancora una volta, un figlio maschio. Con la piccola Angela appena nata, attaccata al capezzolo, Bruna aveva visto suo marito uscire fuori casa nel vicinato e sedersi affranto. Non aveva degnato di uno sguardo la sua quarta figlia, se non alla sera mentre tutti dormivano e lui gironzolava per casa atterrito da quella ennesima delusione.
Bruna da allora, ogni qualvolta l’argomento veniva fuori, sentiva un moto di rabbia verso suo marito.
– È la volontà di Dio, non bestemmiare Eustachio!, Bruna si era accigliata e aveva sentito il suo stomaco chiudersi.
Lei era molto credente e sapeva che tutto faceva parte di un disegno divino. Se Dio le aveva mandato quattro figlie femmine, voleva dire era quella la Sua volontà e loro non dovevano opporsi, mai! Eustachio, però, era recalcitrante a discorsi del genere. Anche lui credeva in Dio, ma non accettava la loro miserrima condizione di vita come una volontà divina. Se Dio ci amava, come predicava Don Vincenzo dall’altare, perché li metteva alla prova ogni giorno? Perché lasciava che morissero la metà dei bambini che nascevano nei Sassi? Perché non gli aveva mandato anche un solo figlio maschio?
Queste e altre mille domande simili ronzavano nella testa di suo marito, ogni giorno, ma lui non aveva una risposta. Nessuno aveva una risposta.
– Cristo non mi ha dato neanche un figlio maschio per aiutarmi con le terre, rispose con il velo di tristezza che contraddistingueva la sua voce – se cado io malato, voi che vi mangerete?
Le parole di Eustachio erano dure e cariche di verità, come le nubi estive lo erano di pioggia. Le sue braccia erano l’unica fonte di reddito in casa loro e la sua salute era un fattore indispensabile affinché tutti avessero qualcosa da mangiare. Eustachio in verità non era preoccupato per sé stesso.
“Se crepo io, che sia pure, ma vi metto a voi nei guai!” andava spesso ripetendo a tavola, mentre aspettava che sua moglie gli mettesse davanti l’unico pasto della giornata. Nessuno replicava mai. E quella sorta di sentenza pendeva sopra di loro come la spada di Damocle.
Bruna però aveva sempre fiducia in Dio.
– In qualche modo faremo – replicò – adesso pensa a dormire!
Eustachio non aggiunse altro. Emise un grugnito e si girò su di un lato, facendo frusciare ancora una volta il materasso. In pochi minuti iniziò a russare e a sibilare.
Bruna accennò un sorriso, maschera su di un volto carico di lacrime. Poi chiuse gli occhi a sua volta. Il suo ultimo pensiero prima di lasciarsi rapire da Morfeo fu per suo marito. Coriaceo e buono. Perennemente triste e preoccupato ma, nonostante tutto, un buon marito e un buon padre.