“Un piccolo spiraglio di luce da un angolo rotto”

di
Francesco Sciannarella

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Sto affogando!
Qualcosa o qualcuno mi tira giù! E tira ancora! L'acqua arriva alla bocca. Perdo il respiro a ogni secondo che passa. Cerco di urlare!
Aiut... aiu...
Le parole diventano un gorgoglio senza senso. Cerco un appiglio qualunque, ma è come se tutto attorno a me sia diventato viscido come il corpo di un mostro marino. Le mani non trovano nulla.
Solo acqua.
Aiut... aiu... ai...
Ingoio un vortice di acqua salmastra. Un conato di vomito mi risale in gola provocandomi un bruciore infernale. Quel mostro schifoso sotto mi sta portando giù, nelle tenebre. Annaspo e mi dimeno, ma più mi agito più lui mi avvolge. I miei piedi nudi cercano un appoggio, uno spuntone per spingermi verso l'alto, ma il mondo sotto di me sembra non avere consistenza. Ha smesso di essere persino liquido.
Nulla di nulla.
L'acqua all'improvviso mi ricopre totalmente. La luce del sole sopra di me si distorce davanti ai miei occhi che sento ormai fuori dalle orbite!
Sto andando giù. Sempre più giù.
Nell'istante in cui l'ultima bolla d'aria lascia il posto all'acqua, nei miei polmoni, provocandomi in petto un fuoco fatto di dolore puro, mi sveglio di soprassalto.
«Cacchio!» ho l'affanno come se avessi corso i cento metri. Il cuore non smette di cavalcare, sembra voglia uscir fuori dal torace. Quella dannata sensazione di bruciore la sento ancora adesso «porca p...» trancio a metà la bestemmia per non far svegliare Marilù, stesa al mio fianco, sotto le lenzuola.
Guardo la linea del suo corpo sotto la stoffa sottile. Non ha niente altro addosso. Mi metto a sedere sul bordo del letto. Quando poggio i piedi per terra, il freddo del pavimento mi fa rabbrividire, trasferendomi la spiacevole sensazione di bagnato.
Il mio sogno ricorrente mi fa visita quasi ogni notte. E quasi ogni notte mi sveglio poi all'improvviso. Le sensazioni sono talmente reali che la paura me la porto dietro per ore.
Mi alzo e vado in bagno. Guardo il mio volto pallido riflesso allo specchio. Mi sento uno schifo.
Lascio scorrere l'acqua e rimango a guardarla, provando quasi ribrezzo nel toccarla. Tento di tenerla stretta nel pugno, ma non si lascia sopraffare. Scavalca la mia mano, imperterrita.
Nuovamente una lotta impari.
Chiudo gli occhi e sospiro. Il cuore ha ripreso a ticchettare con regolarità, ma la sensazione di sconfitta, di frustrazione e di amarezza del sogno è ancora tutta sulle spalle.
Lascio andare il getto d'acqua, riempio le mani a coppa e lavo via dalla faccia tutto quello che posso dell'ultimo tratto di sonno... in pratica niente!
Non voglio rimettermi sotto lenzuola assieme a Marilù, ho paura di sentirmi nuovamente prigioniero. Devo andare via, scappare... cosa che del resto faccio sempre!
Torno in camera da letto, raccolgo le mie cose, cercando di non fare rumore, anche se dopo tre notti passate con Marilù, ho capito a mie spese che dorme come un sasso.
Mi rivesto camminando, rischiando di cadere dalle quattro alle cinque volte, nei pochi metri dalla camera all'uscita. Quando mi chiudo la porta alle spalle, mi do un'occhiata, sembro uno che ha dormito con gli abiti addosso.
Il cellulare segna le undici... del mattino!
Ho finito di lavorare alle tre, stanotte, in quel cesso di bar dove sono recluso. Incontro ragazze che molto spesso sono disponibili a passare una notte, massimo due, con me. E per fortuna!
Marilù è la prima che ha toccato quota tre!
Entro in auto e prima di mettere in moto guardo in direzione della finestra della casa da cui sono scappato, come un ladro. È un appartamentino grazioso alla periferia di Matera.
“I miei genitori, per farsi perdonare della separazione” mi aveva detto Marilù, la prima volta che ci eravamo entrati “hanno regalato un appartamento a me e uno a mio fratello” e aveva indicato la porta di fronte “solo che Renato non ci porta mai le ragazze, ma solo e soltanto i suoi amici mentecatti come lui!” aveva starnazzato, divertita dalla sua stessa infima battuta “però mio fratello mi vuole molto bene... sarebbe disposto a uccidere per me!”
E dopo aver elogiato l'amore fraterno, mi aveva quasi strappato i vestiti di dosso. Avevamo fatto sesso per terra, come animali in calore!
Mi avvio verso casa, cercando mi tenere a mente che la prima cosa da fare è bloccare il numero di Marilù, sperando che non venga a fare una scenata al bar.

«Hai dimenticato di bloccare il numero di...» Pio legge sul cellulare «di... Marilù!»
«Si, lo so...» gli rispondo, fissando le omelette che sfrigolano in padella.
«Però... che gran bel pezzo di figliola!» aggiunge, con gli occhi incollati sullo schermo del mio telefonino.
Alzo lo sguardo al cielo, lascio la padella sul fuoco e vado a riprendermi il cellulare, fingendo di essere schifato «Pio... lo hai sbavato!»
«Ma quanto sei cretino!
E ridiamo come due deficienti. Tra noi è sempre così.
Pio ormai è mio ospite fisso durante quella che per me è la colazione e per lui il pranzo. Poco prima di mezzogiorno apro la porta e lascio che il mio amico entri. Abita alla porta accanto, deve solo spingere la sua sedia a rotelle per pochi metri sul pianerottolo.
“Muovi le chiappe!” gli dico quasi ogni giorno, ridendo. Lui mi risponde con il dito medio e poi entra.
Pio ha sedici anni, da due è diventato paraplegico in seguito a un incidente stradale. A lui è andata bene, suo padre, alla guida, è morto. Da quando ha perso l'uso delle gambe, Pio si è rifugiato in un mondo artefatto, dietro il monitor di un computer. Da quel giorno non è uscito praticamente quasi più di casa. Questa clausura, figlia della sua paura, lo ha trasformato in un mago della tecnologia.
“Ciao... ehm... Pio, giusto?” gli avevo chiesto, una volta, dopo aver suonato alla porta di casa sua e lui era venuto ad aprirmi.
“Risposta esatta... ma non hai vinto niente... Felice, giusto?”
“Risposta esatta...” avevo ripetuto, con una punta di fastidio “tua madre mi ha detto che sei bravo con i computer.”
“Se lo dice lei!” mi aveva risposto, con tono saccente.
All'epoca conoscevo Pio solo come mio vicino di casa, pochissime volte ci eravamo incrociati, dopo l'incidente.
“Puoi dare un'occhiata al mio PC? Non riparte!” gli avevo detto, senza lasciarmi distrarre dal suo modo di fare.
Pio aveva fatto spallucce “ok!”
Ero tornato in casa, ma nella mia ignoranza tecnologica gli avevo portato l'hardisk, il monitor, il mouse e quasi tutto il cablaggio che avevo in casa!
“Non c'era bisogno che traslocavi” mi aveva schernito Pio, con un sorriso fastidioso “dammi solo questo!” e mi aveva preso di mano l'unità centrale, lasciandomi con tutto il resto in bilico tra le mani e per terra “passa domani!” e mi aveva chiuso la porta in faccia.
Per alcuni secondi avevo fissato il legno della porta.
“Che stronzo” e rientrai in casa.
Il giorno dopo il computer era come nuovo.
“Hai beccato un virus che ti ha fatto saltare alcuni file di boot e alcuni file diel-...” Pio si era fermato, davanti alla mia faccia da fesso nell'ascoltare quella sua lingua a me sconosciuta “va beh... niente... adesso è sistemato!”
“Ok! Quanto di devo?” e avevo messo mano al portafogli.
“Niente! Non lo faccio per soldi” mi aveva risposto, nuovamente saccente, con le mani già sulle ruote.
“Ah... ok... grazie” non è nella mia natura rimanere in debito con qualcuno “posso almeno... non so... invitarti... a pranzo... a cena... decidi tu” cercando di scalfire la sua diffidenza.
Pio aveva fatto una faccia strana, ma alla fine si era deciso a rispondermi “ok, se proprio ci tieni... possiamo fare a colazione” aveva sorriso “visti i tuoi orari... per me sarà il pranzo!” da super permaloso di natura, mi ero sentito come colpito da una freccetta sul culo. Non amavo essere osservato e per un secondo stavo per mandarlo a cagare e ritirare l'invito, ma Pio mi aveva fatto cambiare idea e anche umore in un secondo “un invito a cena è troppo prematuro... ci siamo appena conosciuti!”.
Avevo fatto una smorfia e avevo sorriso anch'io “si, in effetti... la cena non è indicata per un primo appuntamento!”
Insieme avevamo sorriso come idioti e poi ci eravamo salutati.
E da quel giorno di un anno prima, quasi ogni mattina il mio giovane amico viene da me. Sua madre lavora fino alle tre del pomeriggio e le risparmio la fatica di preparare qualcosa per lui.
Spadello per l'ultima volta le omelette, con il ripieno di prosciutto cotto e formaggio, come piace a Pio. Infine le faccio scivolare nel piatto, ancora fumanti. Lui è già in posizione e pronto a mangiare, gli siedo di fronte.
«Per me... sei sprecato in quel bar» mi dice, tagliando un pezzo di omelette e riempiendosi la bocca «cucini piatti buonissimi!» continua masticando.
«Lo dici perché sai che se dicessi il contrario non ti inviterei più a casa mia!» e soffio sul mio boccone.
«Invece ti sbagli... ma il problema non è quello che ti dico io» e mi guarda «ma il fatto che tu non credi nelle tue capacità... a questo punto dovresti dirmi perché hai preso il diploma all'alberghiero!»
Faccio una smorfia che vuol dire tutto e niente. Non amo essere messo davanti ai miei difetti, ma allo stesso tempo è piacevole sentirsi dire certe cose. Sapere di essere bravo in qualcosa mi da fiducia... se dovesse chiudere quella bettola dove lavoro qualcos'altro la trovo! Forse!
«A scuola ho imparato le basi per cucinare... e a casa lo faccio per non morire di fame» e metto in bocca un altro po' di omelette «ma definirmi un cuoco mi sembra eccessivo!»
In realtà amo stare davanti ai fornelli, quello che non amo è dover sottostare agli ordini di qualcuno con deliri di onnipotenza!
«Ovviamente» Pio sta già tagliando l'ultima pezzo «ma è indiscutibile che ti piace cucinare!» mi guarda come un cane bastonato «io non saprei fare un uovo sodo!»
«Se non ci provi... è un po' difficile che impari!» faccio una pausa e riempio l'acqua a me e a lui.
«Mia madre mi vieta anche solo di avvicinarmi alla cucina!»
«Vuole solo proteggerti!»
«Forse un po' troppo! Fosse per lei dovrei vivere sotto una campana di vetro!» e manda giù l'ultimo boccone, fissando il vuoto. Non dico niente, sull'argomento cerco di rimanere piuttosto neutrale.
Non ho idea di quanto sia dura, per una mamma, vedere il proprio figlio su una sedia a rotelle, ma credo sia una vera e propria tortura. Immagino i tanti sogni che potrà fare una madre sul futuro di un figlio e un incidente come quello di Pio fa tabula rasa di tutto, speranza compresa.
Pio ha una sorella, Azzurra, ma non vive più con loro da un po'. Non ho idea di dove sia e del perché abbia deciso di andare a vivere da sola, ma di sicuro c'è acredine tra lei e sua madre.
“Azzurra ha un carattere tutto suo” mi aveva detto Pio una sera, prima di una partita di Champions “e mia madre non è da meno... e due galli in un pollaio prima o poi finisce che si ammazzano!” e senza guardarmi aveva addentato l'hot-dog pre-partita che avevo preparato.
Non avevo chiesto altro sul conto di Azzurra, ma era chiaro quanto a Pio dispiacesse una situazione del genere. Non ho praticamente nessun ricordo di questa sorella. Negli anni in cui lei viveva ancora in casa dei suoi genitori, io ero a Londra, a lavorare, lei invece studiava fuori, quindi eravamo praticamente due estranei.
“Non appena ha vinto il concorso in ospedale, ha comprato casa e se n'è andata” aveva concluso Pio, masticando.
“Lavora in ospedale?” avevo chiesto, più per curiosità.
“Si... è infermiera” e mi aveva guardato “può sempre tornarti utile... visto che prima o poi una delle tue ragazze ti manderà all'ospedale” e aveva riso a bocca piena “o peggio... di renderà padre!”
Pio aveva riso fino a strozzarsi, io l'avevo imitato due secondi dopo, ma senza rischiare il soffocamento. E la partita era iniziata, con il sottofondo delle nostre risate.
È questo il mood del nostro tempo insieme.
«Com'è che non rispondi alla tipa?» mi chiede Pio, indicando il cellulare sul tavolo, mentre lascio i piatti nel lavabo. Mi fermo, sospiro e poi mi giro a guardarlo.
«Mi sembri il grillo parlante!»
«Ma quando mai!» e già ride «tu non hai mica una coscienza come Pinocchio!»
Prendo il tovagliolo e glielo lancio in faccia «che gran rompipalle che sei!»
«No, davvero... sul serio... perché non le rispondi?» e posa il tovagliolo sul tavolo, dopo averlo ripiegato per bene.
«Non lo so!» mento, senza esserne davvero capace.
«E da quant'è che la ignori?»
«Boh! Una settimana credo!»
«Una settimana?» Pio fa una smorfia «mmmh... dev'essere una tosta se dopo una settimana non ha capito che sei negato per le storie serie!»
«Pio... dovresti farti una spaghettata di fatti tuoi!» sento le mie risposte sempre più ruvide.
«No... sai... te lo chiedo perché se vuoi... posso immolarmi al tuo posto... e magari con me ci sta... le storie serie piacciono!»
«Non è il tuo tipo, credimi!»
«Dici?» il mio giovane amico scuote la testa e sorride «sono uno che si adatta facilmente, tranquillo!»
«Smettila!» e il mio cellulare si illumina.
«Toh! Sarà il destino!» aggiunge lui, sbirciando al volo lo schermo «se vuoi le rispondo io!»
Scatto e allungo la mano per prendere il cellulare, ma colpisco prima il mio bicchiere ancora pieno d'acqua, il liquido maledetto si versa completamente, bagnando il telefono.
«Cazzo!» sfilo via lo smartphone e lo asciugo subito.
Pio ridacchia rumorosamente. Lo fulmino con gli occhi e lui capisce che deve smetterla «ok... ok... sto zitto!» alza le mani in segno di resa e subito dopo muove indietro la sedia a rotelle, allontanandosi dal tavolo «me ne vado...»
Mi fermo dall'asciugare ossessivamente quel pezzo di tecnologia. Sospiro e parlo, prima che Pio esca dalla stanza «forse un giorno te lo spiego perché non rispondo» gli dico, frustrato.
«Se vuoi puoi farlo stasera... ti ricordi che c'è la Juventus in TV?» mi dice, fermandosi sulla porta.
«Me lo ricordo, ma tu hai dimenticato che oggi è sabato...» prendo il mazzo di chiavi di scorta, che conservo sopra il frigorifero, e gliele lancio «non credo di fare in tempo, ma tu vieni a vederla da solo, se non ti raggiungo in tempo, quando esci chiudi la porta e buonanotte!»
«Se dici così vuol dire che la partita la guarderò sicuramente da solo, già lo so!» sorride, mostrandomi le chiavi «ma... non hai paura che possa portarmi una ragazza qui dentro... magari nel tuo letto?»
«Assolutamente no...» sorrido «ma se dovesse succedere avvisami, così vado a dormire in albergo!»
«Mmmh... ok!» e va via.
In volto ha un sorriso carico di amarezza. La sua curiosità per il mio comportamento con le ragazze è frutto di una velata invidia, ne sono sicuro, ma anche perché mi vuole bene. È un po' il fratello minore che non ho mai avuto.
I miei genitori, quando sono nato, erano piuttosto avanti con l'età, mio padre aveva quasi cinquant'anni e mia madre oltre quaranta.
“Sei stato una specie di miracolo” mi aveva detto lei, un giorno, mentre parlavamo, in una pausa dai compiti “io e tuo padre ci eravamo già rassegnati a non avere figli, poi è successo e sei arrivato tu, la nostra benedizione!”
Mia madre mi aveva sorriso nella sua maniera disarmante, si era avvicinata e mi aveva baciato i capelli. Quelli erano giorni spensierati, il mio futuro non era più lungo di ventiquattr'ore. Sembrava che niente e nessuno potesse scalfire quell'universo che mi faceva sentire in pace con tutto e con tutti, ma mi sbagliavo.
Prima accadde il mio incidente, quello che io chiamo il giorno del pozzo. Poi fu la volta di mio padre. Morì così, all'improvviso, due anni dopo, senza dirci nulla, lasciando un vuoto che non sono mai riuscito a colmare completamente. Mia madre ancora meno di me. Lei morì due volte. Il suo spirito si spense definitivamente il giorno in cui l'infarto stroncò suo marito in pochi minuti. Ed è cosa certa, un corpo privo di spirito finisce per consumarsi pian piano, in una lenta e dolorosa agonia, chiamata il più delle volte depressione. Il suo corpo, negli anni, si era curvato lentamente su se stesso, fino a spegnersi.
Rimasi solo al mondo quando avevo da poco compiuto vent'anni. Mi ero diplomato solo un anno prima. Sulla carta ero un cuoco, ma avendo messo volutamente in ombra le mie velleità di chef, avevo trovato lavoro come cameriere in un pub. Dopo la morte di mia madre, però, quella casa mi sembrava dannatamente piena di un dolore silenzioso e mi trasferii in Gran Bretagna. Per i successivi cinque anni vissi a Brighton e lavorai come barman in un pub in puro stile irlandese.
“Quante birre hai spillato lì dentro?” mi aveva chiesto una volta Pio, quando gli avevo raccontato di quegli anni inglesi.
“Una infinità!”
“Quindi avrai visto anche un sacco di persone ubriache!”
“Quelle credo siano state più delle birre che ho spillato!” e avevamo riso per quella amara verità “c'era gente che il fine settimana si sfondava di birra!”
Nei primi mesi, quando il mio inglese incerto mi rendeva oggetto di scherno da parte di tutti, a partire dal proprietario, non era stato facile per me sopportare. L'eco di quelle prese in giro da cui non potevo difendermi, mi rendevano irascibile. Quelle parole capite a metà, mescolate alla birra, quasi mi infastidivano. Quando, nel giro di un anno, il mio inglese era diventato fluente, tutto assunse un colore e un sapore diverso.
“E perché sei tornato qui a farti sfruttare in quel postaccio dove sei adesso?”
“Colpa della crisi” sentenziai “lo spostamento d'aria della bomba economica esplosa in America fece chiudere battenti a molte aziende e attività, tra le quali il pub dove lavoravo” e gli avevo sorriso “e poi mi ero stancato di quel clima uggioso!”
“Posso immaginare... dicono che in Gran Bretagna se la primavera arriva e tu sei in bagno... te la sei persa!” e avevamo riso come due cretini per mezz'ora.
Così ritornai a Matera. E quando tolsi le lenzuola che ricoprivano i mobili di quella che era sempre casa mia, tutto assunse una luce nuova. In realtà non era cambiato niente tra quelle mura, il profumo di infiniti ricordi era ancora tutto lì. Ero cambiato io, vedevo tutto con occhi diversi.
Dopo il rumore della porta chiusa dal mio amico, rimango a fissare il mio cellulare che non ha subito danni, per fortuna. Apro e leggo il messaggio di Marilù.
“Sei un grandissimo stronzo! Ho capito che volevi solo portarmi a letto perché non hai le palle per affrontare una storia seria, ma questo non ti da il diritto di trattarmi come una puttana! Te la farò pagare, lo giuro!”
Cancello e sospiro. Poi blocco il suo numero e lascio il telefono. Rimango a fissare la tovaglia bagnata e penso alle parole di Marilù.

«Due giorni fa è venuta la tua amica» mi dice Ivan, mentre sto lavando il pavimento insudiciato da centinaia di pedate e da tutto quello che i clienti riescono a far cadere per terra «e sembrava piuttosto incazzata» lo vedo accennare un sorriso, mentre pulisce il bancone.
È chiaro si riferisca a Marilù. Per fortuna non c'ero, avevo il turno del mattino e lei era solita venire nel tardo pomeriggio, dopo aver chiuso la sua boutique.
«Non siamo più amici» gli rispondo, senza alzare lo sguardo dallo straccio grigio, girando attorno al trespolo dov'è seduto l'ultimo avventore del bar. Il deficiente sta spendendo il suo stipendio a una delle due macchine mangiasoldi che stanno arricchendo solo il mio capo e lo Stato.
«Se proprio lo vuoi sapere... io, una così, non la lascerei sola neanche per andare in bagno!»
Mi fermo e poggio le mani sul manico, fissando Ivan che sorride assieme all'idiota della slot machine.
«E perché non ci provi tu con lei?» gli dico, più per stizza che per simpatia.
«Magari!» fa una faccia ancora più da ebete «ma mia moglie mi ucciderebbe se solo la guardassi!»
Infatti... ti azzererebbe!
Ivan è infelicemente sposato con una donna che ha perso il senso della bellezza il giorno dopo aver messo la fede nuziale. Non si trucca mai, non ha mai messo piede da un'estetista e fosse per lei la categoria dei parrucchieri per signora si sarebbe estinta. I suoi capelli sono unti e appiccicaticci tutti i giorni dell'anno, credo faccia l'aerosol mentre frigge. Perché lei frigge tutto, tant'è che quando cammina la scia maleodorante di olio esausto non solo si sente... ma si vede! Dopo due gravidanze, è diventata così obesa da darmi l'impressione di un mostro marino. E come tale si comportava con suo marito a ogni eccesso di gelosia. Il carattere rabbioso di questa donna così smisurata la rende ancora più sgradevole ai miei occhi. Detto questo è comprensibile che un pusillanime come Ivan si senta in pace con l'universo solo quando è rinchiuso nel suo bar. In questa bettola almeno è qualcuno!
«Non ha mica detto che tornerà?» chiedo, riprendendo a lavare per terra.
«Non ha detto niente... neanche buonasera!»
Non replico e cerco di accelerare, sono stanco e voglio tornare a casa e stendermi sul divano per svegliarmi domani mattina. L'aria in questo posto si fa ogni giorno più pesante, i clienti sono sempre le stesse facce di merda e con Ivan e l'altro sfigato che con me divide i turni, c'è solo un rapporto di lavoro. Niente di più.
“Perché non provi a cambiare un po' questo posto?” avevo detto una volta, al mio capo, mentre sistemavo la roba nel magazzino sul retro.
“E perché dovrei?” aveva risposto lui “i soldi a fine giornata ci sono” e si era sfregato indice e pollice “se tutto va bene tra dieci anni me ne vado in pensione... sai quanto me ne frega di cambiare questo posto!”
Non aveva torto, in effetti, ma gli avevo tentato di spiegare che facendolo assomigliare a un pub irlandese, una volta avviato, e appena lui fosse arrivato alla pensione, poteva darlo in gestione e guadagnare più che dal semplice fitto del locale.
“Seee... buonanotte!” mi aveva detto, come se stesse parlando con un ritardato “sei fissato co' sto pub! Qui non stiamo mica in Inghilterra, qui siamo al Sud Italia!”
Così avevo chiuso l'argomento e mai più riaperto. Tempo sprecato.
Vado in bagno e svuoto il secchio nel cesso. Lascio tutto in un angolo, mi lavo le mani e decido di andare via, non aspetterò certo che quel demente finisca tutti i soldi alla macchinetta.
«Io vado, Ivan!»
«Ok!» mi risponde, scocciato, mentre guarda giocare il suo cliente. Lo sento commentare la sfortuna delle mancate combinazioni, quasi dispiaciuto per lui. Ivan in realtà gioisce dentro.
“Questi trimoni* non hanno capito che queste dannate mangiasoldi pagano in percentuale rispetto a quello che incassano!” mi aveva spiegato una volta, contento.
Esco, respirando aria fresca, come un galeotto nell'ora d'aria, a pieni polmoni. Il pensiero di lavorare qui dentro per il resto della vita mi avvilisce.
Che gran rottura!
Mi avvio e giro a destra, nel vicolo dove parcheggio l'auto.
Manca poco all'una del mattino, in giro poche auto, gran parte di gente che torna a casa, il bar è alla periferia di Matera e non ci sono molti locali in zona.
La primavera si annusa già da un po' giorni, pollini inclusi. Mi chiudo nelle spalle e infilo le mani in tasca. Cammino lungo il marciapiede che gira tutto attorno all'enorme casermone, sotto cui è situato il bar. Dall'altra parte della strada vedo un piccolo gruppo di persone, sbircio più per una strana curiosità e noto che sono due ragazzi e una ragazza, ma lei è in penombra nell'abitacolo dell'auto parcheggiata. I due invece ci sono poggiati e stanno fumando. Ho come l'impressione che mi stiano fissando. Alzo il passo. Ormai sono in una età in cui non ho paura della gente, ma rimango una persona non violenta ed evito ogni tipo di scontro fisico.
Giro ancora e vedo la mia auto troppo lontana, ma i due ragazzi di poco prima hanno iniziato a seguirmi, sento il rumore dei loro passi, li ho notati con la coda dell'occhio. Non avevo sbagliato, stavano aspettando me. Accelero ancora, ma non voglio dare l'impressione di scappare, anche se di fatto è così! Avverto i movimenti dei due dietro di me e me li ritrovo alle spalle. Uno dei due mi prende di dietro, girandomi con furia. L'altro mi supera in modo che io finisca in mezzo a loro.
«Che cazzo volete?» dico, togliendomi di dosso la mano del primo.
«Niente!» il tizio che mi ha parlato è smilzo, ha una sigaretta penzolante nella bocca e all'improvviso mi spinge violentemente. Finisco addosso all'altro, che mi spinge a sua volta, facendomi ritrovare a pochi centimetri dalla faccia del compare.
«E allora andate a 'fanculo!» rispondo, con una spavalderia solo nella voce.
«No... tu vai fare in culo, Felice!» strattonandomi e con sempre maggiore forza. Barcollo, ma non cado.
«Ma chi cazzo siete?» guardo alternativamente i due e nella penombra noto che il secondo ha una faccia da attore, capelli e carnagione scura, volto liscio e rasato, occhi penetranti, ma quando ride mi fa più paura del primo.
«Per me... tu parli troppo!» e prima che possa capirci qualcosa, mi molla un ceffone che mi fa vacillare, sento la guancia avvampare e l'orecchio fischiare.
«Ma che ca--»
Tento di rimettermi dritto e provare a scappare, ma quello con la faccia “da attore” mi ferma trattenendomi per il giubbotto. Il primo, quello che sembra comandare, mi si avventa contro e mi colpisce con altri due sonori ceffoni, come un bambino cattivo.
«Cosa volete? Soldi?» e parte un'altra sberla, che riesco a fermare con una mano.
«Non so che farmene dei tuoi soldi di merda!»
«E... e... all-allora che-che volete da me?»
Il capo si ferma, sospira e poi fa una risata che sembra più un dannato ghigno.
«Non hai ancora capito chi sono?»
Muovo la testa in un “no”, mentre mi tocco la faccia arroventata dagli schiaffi e dalla umiliazione. Un altro sorriso e poi fa una cosa che ho sempre odiato, mi afferra per un orecchio e tira con violenza, facendomi un male tremendo. Stringo il pugno destro e colpisco il mio torturatore nello stomaco. Lui molla la presa e colgo l'occasione per tentare la fuga, ma l'altro, ancora una volta, con un guizzo, mi prende nuovamente per il giubbotto così forte da farmi cadere, ai piedi del suo amico.
«Dove vai, coglione!» mi dice, mentre sento un dolore atroce al ginocchio che ha urtato il cemento duro.
Il primo si piega verso di me e mi guarda «quando tu esci con una ragazza, facendole credere che le vuoi bene, ma poi in realtà te la vuoi solo scopare... devi sempre informarti se ha per caso un fratello che gli vuole bene, capito... coglione?»
«No-non... ho... mai parlato di...» stringo i denti per il dolore «di... una storia seria!»
«Lei dice di sì...» fa spallucce «e io credo alla mia sorellina!»
«E sbagli...» mi rimetto lentamente in piedi, mal dirotto «perché non le ho promesso niente di niente!»
«Mi stai dicendo che mia sorella è una bugiarda?» mi si avvicina fino a farmi sentire il suo alito di sigaretta, mentre il mio cuore accelera e sento di potermela fare addosso da un secondo all'altro.
«Non so quello che ti ha detto Marilù... ma io non le ho fatto promesse!»
Lui scuote la testa, incredulo «però te la sei scopata abbastanza da farle credere in una storia seria!»
«Perché... c'è un numero di scopate minimo... per essere fidanzati?» accenno un sorriso che so mi costerà caro.
«Sei davvero una merda!» e quando il colpo arriva nello stomaco, tutta l'aria fuoriesce, le gambe diventano di burro e mi accascio per terra dolorante. Ed è allora che la tortura si fa sentire in tutta la sua crudezza, si accaniscono con pugni e calci, mi accartoccio su me stesso, cercando di proteggermi il volto con le braccia.
Quando i due sono soddisfatti, e io al limite dello svenimento, il fratello di Marilù mi sputa addosso e si piega nuovamente su di me.
«E da oggi mia sorella non devi neanche più guardala, ti è chiaro... stronzo?»
«Chiaro...» sussurro, senza neanche capire a chi ho risposto.
Sento i loro passi sul marciapiede e le fitte tremende di dolore. Non riesco quasi a respirare, ho come la sensazione di non avere più i muscoli. Le palpebre iniziano a chiudersi, senza che io lo voglia, e all'improvviso tutto diventa buio.
Quando la secchiata d'acqua mi colpisce in pieno volto, facendomi risvegliare di colpo, annaspando, ho quella sgradevole sensazione che mi prende ogni notte quando sogno di annegare nel dannatissimo pozzo.
«Vai a drogarti da un'altra parte... o chiamo la polizia, hai capito?»
La voce di una donna anziana mi accoglie nuovamente nel mondo dei vivi. Lentamente riesco a mettere a fuoco il suo volto aggrinzito e assieme alla vista ritorna il dolore acuto in ogni angolo del mio corpo.
«Non... sono... un drogato...» le dico, alzandomi con uno sforzo. Poi passo una mano sulla faccia bagnata «e poteva svegliarmi anche senza usare l'acqua, signora!»
«E che ne so che malattie puoi avere tu!»
«Le ho detto che non sono un drogato...» così le dico, mentre mi sistemo i vestiti a denti stretti per la sofferenza atroce «mi hanno picchiato!»
«Ah... e allora vai all'ospedale!»
«Non serve...» mento «adesso va meglio».
La signora mi guarda borbottando, mentre mi avvio zoppicando.
Mi appoggio all'auto per riprendere fiato e mi guardo attorno, il crepuscolo sbircia attraverso il cielo notturno. Inspiro ed espiro per cercare di trovare un po' di energia per mettermi al posto di guida, nonostante fitte lancinanti alle costole. Lentamente sfilo le chiavi dalla tasca, apro ed entro. Quando mi siedo il dolore alla schiena mi fa quasi gridare e con un movimento pieno di spasmi, chiudo la portiera e rimango immobile a occhi chiusi. Sperando che in questo modo il dolore si plachi.
Ho una gran voglia di urlare, ma la sofferenza è tale da bloccare persino l'intenzione.
Forse me lo sono meritato, a essere stronzi non sempre ti può andar bene!
Guardo il mio volto riflesso allo specchietto.
«Dio mio!» non sembro io.
Stringo i denti e finalmente metto in moto e parto. Il viaggio è una penitenza, ogni buca, ogni sterzata, ogni cambio di marcia mi da il tormento.
Quando parcheggio l'auto sotto casa, sfilo via solo le chiavi, senza chiudere.
Alla fine varco la porta di casa, getto le chiavi sul tavolo e mi lascio andare a peso morto sul divano.
«Aaaaaaaaaaaaaaaah! Cazzo!» l'urlo credo l'abbia sentito l'intero condominio, ma non mi interessa.
Lentamente, nella immobilità totale, ho come l'impressione di sentirmi meglio. Sento il sapore ferroso di sangue nella bocca. Faccio la conta dei denti e a un primo inventario credo di non averne perso nessuno. Chiudo gli occhi e finalmente la stanchezza prende il sopravvento sull'adrenalina e crollo in un sonno sofferente.

«Accidenti... è ridotto piuttosto male.»
«Per questo ho chiamato te.»
«Si, ma se non si sveglia non posso capire dove sente dolore.»
Nel sogno strano che non riesco ad afferrare, avverto quelle due voci.
«Prima parlava nel sonno.»
«È bollente, ha la febbre.»
«Accidenti, hai ragione... oh... io, però, la supposta non gliela metto!»
É Pio.
E sogno ancora. Pio. Marilù. Mia madre e mio padre. Tutto in una mescolanza di scene ovattate e senza un continuo spazio-tempo.
Ho come l'impressione di camminare, ma senza che abbia deciso di farlo, come se stessi traslando. Vedo la mia camera da letto, la luce del sole dalla finestra, una donna china su di me e le sue mani sulla pelle. Gli occhi non riescono a stare aperti per più di un secondo, ritorna il buio. Riprendo a dormire e mi prende quel sogno ricorrente e terrificante. La mia ferita sempre aperta.
«Aaaaaaaaaaaaargh!» mi sveglio all'improvviso, annaspando come alla ricerca di aria fuori dall'acqua. Quando ritorno in me, mi rendo conto che l'unica acqua presente è quella che ha bagnato il pavimento, mescolata ai vetri del bicchiere che ho urtato con la mano ed finito in frantumi. Nella stanza appaiono una ragazza e subito dopo Pio. Non mi sembra di conoscerla, ma ho la sensazione che si tratti di Azzurra.
Non la ricordavo così...
«Ehi... cos'è successo?» mi chiede lei, fermandosi un secondo prima di calpestare i vetri!
«L'acqua...» rispondo, con una voce che sembra più un sussurro.
Lentamente tutto mi appare più chiaro attorno e prendo consapevolezza di dove mi trovo, nella mia camera, sotto le coperte, completamente vestito. La serranda è abbassata, ma sembra sia ancora giorno. L'ambiente è avvolto da una rassicurante penombra.
«Non preoccuparti» mi dice Azzurra, tornando indietro «li raccolgo subito.»
Scorgo Pio sulla porta a fissarmi con un sorriso scemo «accidenti... hai un aspetto di merda!»
Faccio una smorfia, sentendo il viso tirare da un lato «grazie... sei sempre di conforto!»
«La sincerità è una componente fondamentale dell'amicizia.»
«Si... ma... anche il silenzio!»
«Pio, sta' zitto!» lo riprende Azzurra, mentre rientra con secchio, frattazzo e un rotolo di carta asciugamani. Inizia a raccogliere i pezzi vetro a mani nude e li infila nella metà rimasta del bicchiere.
«Lascia stare... faccio io» le dico, ma nell'istante in cui tento di sollevarmi, una debolezza infinita fa girare il mondo tutto attorno «oh cacchio!»
«Non devi alzarti» mi ammonisce Azzurra, fulminandomi con lo sguardo «hai ancora un po' di febbre e non mangi niente da un bel po'.»
Fisso il soffitto e respiro con affanno. Metto la mano sul torace e mi accorgo che è fasciato.
«Dio che dolore... non riesco quasi a respirare».
Azzurra si ferma e mi guarda «non ci dovrebbero essere costole fratturate, ma per sicurezza ti ho praticato una fasciatura leggera, ma appena ti rimetti, se il dolore continua, devi andare in ospedale.»
Ah... quindi non era un angelo quello che ho visto nel dormiveglia...
«Mi sento uno schifo!»
«In pratica come ogni giorno!» ribatte Pio, dalla sua posizione defilata.
«Già» giro la testa a lui «dopo essermi steso sul divano non ricordo granché... come...»
«Mio fratello aveva le chiavi» dice Azzurra, piegata ad assorbire acqua, poi mi sorride come fa suo fratello «ti fidi a tal punto di lui... da dargli le chiavi di casa?»
«No... solo per queste evenienze!» sorridiamo in tre, ma io sento il labbro tirare. Lo tocco e mi accorgo che è gonfio e c'è un cerotto.
«Non toccarlo» mi dice lei, sfiorandomi il braccio «probabilmente ci volevano dei punti di sutura, ma se ci stai attento non sanguinerà più!»
In quel movimento verso di me, guardo prima la sua mano elegante, poi noto il pendente della collana: una piccola balena. Fisso quell'oggetto per un po', come ipnotizzato, fino a che la voce di Pio non rompe quella specie di incantesimo.
«Ti potrebbe rimanere una cicatrice sul labbro» aggiunge lui «ma cos'è successo, hai tamponato un autobus con la faccia?»
Mi sforzo di non muovere molto la bocca, mi limito a fare un gesto con la mano per dirgli che ci è andato vicino.
«Pio... lascia in pace Felice, deve riposare.»
Non voglio parlare davanti ad Azzurra, che nel frattempo ha finito ed è tornata in bagno. Pio muove un po' verso l'interno «scommetto che è per colpa di quella tizia delle telefonate, vero?»
Annuisco con la testa e all'improvviso mi sento uno schifo anche dentro. Sospiro, con dolore, e fisso il vuoto.
«Pio ha chiamato al bar per avvertire che non stai bene» dice Azzurra, riapparendo nella stanza.
«Ho detto a quell'idiota di Ivan che hai la febbre e che per tre o quattro giorni rimani a casa... in una settimana dovresti aver recuperato.»
«Da quanto tempo sono in questo stato?» riesco a chiedere nonostante le labbra tumefatte.
«Oh... beh... hai dormito per quasi ventiquattr'ore» dice Azzurra «ma è meglio così, la febbre è andata via quasi completamente.»
«Io volevo metterti una supposta! Se vuoi...»
«Pio, andiamo... dici solo cavolate!» Azzurra fa un gesto a suo fratello di andare indietro poi si rivolge a me «appena riuscirai ad alzarti, in frigo ti ho preparato del riso freddo... non avevo idea di quanto ci avresti messo a guarire e ho pensato a un piatto che pote-...»
«Grazie» la interrompo, guardandola negli occhi «di tutto, ovviamente.»
«Figurati!» mi sorride ed esce.
«Ah... porto le chiavi con me, ok?» dice Pio, a voce alta, dal soggiorno.
«Ok... ok» replico a mezzo tono.
La sofferenza è atroce.
Rimango a fissare il vuoto davanti agli occhi e poi provo a rilassarmi e dormire.